Cerca
Close this search box.

Artificial Intelligence e Data Science sono il futuro

Gli Atenei italiani stanno ampliando e aggiornando l’offerta formativa attraverso l’apertura di nuove lauree e di curriculum per rispondere a una crescente richiesta di laureati con competenze su Data Science e Artificial Intelligence.

Donato Malerba è Direttore del Dipartimento di Informatica dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro e del Laboratorio Nazionale CINI su Big Data. Ha ricoperto il ruolo di coordinatore del dottorato di ricerca in Informatica e membro sia del Board of Directors della Big Data Value Association che del Board della EU Public-Private Partnership Big Data Value.

Ha avuto una intensa attività didattica e di ricerca, svolgendo un ruolo attivo, anche di coordinamento, in diversi progetti di ricerca europei e nazionali. La sua attività scientifica riguarda principalmente la Data Science (Machine Learning, Data Mining e Big Data Analytics) e sue molteplici applicazioni. Guida il gruppo di ricerca KDDE (Knowledge Discovery and Data Engineering, kdde.di.uniba.it). Ha pubblicato oltre 300 articoli su riviste e atti di convegno nazionali e internazionali.

Donato Malerba è stato general chair e PC-Cochair di diverse conferenze internazionali e della Winter School on Big Data 2017. Fa parte di numerosi comitati di programma di conferenze su Machine Learning, Data Mining, Artificial Intelligence, Big Data.

Fa parte dell’editorial board di diverse riviste internazionali, incluso Machine Learning Journal, Data Mining and Knowledge Discovery, e Journal of Intelligent Information Systems.

Come sono le condizioni degli Atenei italiani, oggi, in riferimento a Big Data, Machine Learning, Tecnologie AI, sia dal punto di vista didattico che organizzativo?

Gli Atenei italiani stanno ampliando e aggiornando l’offerta formativa attraverso l’apertura di nuove lauree e di curriculum dedicati all’interno di lauree esistenti. Questo permette di rispondere a una crescente richiesta di laureati con competenze su Data Science e Artificial Intelligence; che ovviamente abbracciano quelle su Big Data, Data Mining e Machine Learning.

Dai due pioneristici corsi di laurea magistrale su Data Science avviati nell’anno accademico 2015 a Roma Sapienza e Torino; si è passati a circa trenta corsi di laurea nell’anno accademico in corso; grazie anche all’approvazione del CUN (Consiglio Universitario Nazionale, N.d.R.) della classe delle lauree magistrali in Data Science. Si registra anche un grande interesse per le lauree in Artificial Intelligence. Anche in questo caso, Roma Sapienza ha fatto da apripista con una laurea magistrale nel 2017 su Artificial Intelligence e Robotica; che potrebbero diventare 9, incluse le prime tre lauree triennali, già nel prossimo anno accademico. Senza contare i curriculum dedicati all’Artificial Intelligence nell’ambito di lauree magistrali in Informatica (è questo il caso dell’Università di Bari, N.d.R.).

L’Artificial Intelligence sta cambiando anche il modo di lavorare e lo Smart Working si sta diffondendo: come si sta allineando l’ambiente accademico a questa evoluzione?

Siamo alle prime sperimentazioni. D’altronde la legge che promuove il cosiddetto lavoro agile o Smart Working è recente (L. 124/2015). La direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che fornisce gli indirizzi e le linee guida per l’attuazione attraverso una fase di sperimentazione, è ancor più giovane  (10 giugno 2017, Nd.R.). Gli atenei lombardi sono stati pioneristici (penso all’Università di Bicocca, al Politecnico di Milano o all’Università dell’Insubria), ma non mancano proposte allo studio in altri Atenei.

L’introduzione dello Smart Working coinvolge essenzialmente il personale tecnico-amministrativo. I docenti hanno già una modalità di lavoro diversa e particolare, con ampia flessibilità e autonomia. Da tempo le tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni consentono di lavorare tranquillamente da casa come se fossimo in ufficio. Tuttavia occorre calare queste possibilità in nuovi modelli organizzativi, profondamente diversi da quelli attualmente adottati; caratterizzati da rigide procedure e regole e attenti soprattutto alla conformità con la norma, anche a prescindere dal suo vero significato o obiettivo. Per questo lo Smart Working è un percorso impegnativo, che richiede anche degli investimenti. Non esistono modelli predefiniti: ogni  Ateneo deve costruire il proprio in base alla sua realtà. Ciò che mi sembra evidente è che questo sia ormai un percorso ineludibile. Lo impongono l’attuale attenzione alla sostenibilità e le recenti vicende legate all’epidemia da Coronavirus.

A proposito di cambiamenti, negli ambienti STEM le donne sono ancora una minoranza, nonostante la crescente domanda di profili da parte del mercato: quali sono per lei i motivi?

Se le donne negli ambienti STEM sono una minoranza, circa il 30%, i numeri diventano drammatici nel settore dell’informatica. Ad esempio, nel mio Ateneo, la percentuale di donne iscritte ai diversi corsi di laurea in informatica si attesta intorno all’ 11,5%. La situazione è paradossale: se da una parte le figure professionali dell’informatico e dell’ingegnere informatico sono sempre più richieste, tanto da essere insufficienti a rispondere alle esigenze del mondo del lavoro, dall’altra le donne sembrano essere rimaste quasi completamente escluse da questi ambiti. Questo rallenta l’economia, come dimostrato da studi della Commissione Europea, ma anche l’evoluzione tecnologica, dove il coinvolgimento femminile è sempre stato essenziale.

Un esempio per tutti, Katherine Johnson, matematica, informatica e fisica statunitense, di origini afroamericane, venuta a mancare pochi giorni fa.  Lei ha contribuito con i suoi calcoli a lanciare la corsa nello spazio lavorando per la Nasa. La sua storia è stata raccontata nel film Il diritto di contare.

Tornando all’Artificial Intelligence, l’evoluzione in chiave cognitiva di molte tecnologie di uso comune, richiederà sempre più progettisti con skill appartenenti più alle donne che agli uomini. Nonostante questo, si stima che le donne occupino solo il 20% delle posizioni lavorative nel campo dell’IA. Sempre più donne sono utenti di tecnologie informatiche, ma il numero di donne creatrici di tali strumenti resta molto basso.

Eppure negli anni ’50-’60 la situazione era profondamente diversa.

Negli Stati Uniti la carriera di programmatrice sembrava riservata quasi esclusivamente a loro, tanto che non c’era foto di mainframe che non ritraesse in bella vista una programmatrice in tailleur. Erano i tempi in cui le attività di programmazione erano ritenute subalterne a quelle di progettazione e costruzione dell’hardware. Quando la situazione si ribaltò e si capì che la progettazione e realizzazione di  software sempre più complessi era un’attività meglio remunerata, le donne vennero man mano escluse da questo settore. Nelle foto dei minicomputer degli anni ’70 sparirono le donne in tailleur e apparvero gli uomini in camicia. Si formò così lo stereotipo dell’informatico come un nerd maschio.

Nel vostro Ateneo avete avviato diverse iniziative a questo proposito.

Negli ultimi anni nel nostro Ateneo abbiamo avviato diverse iniziative di orientamento rivolto a ragazze di scuola media superiore, finalizzate ad avvicinarle al mondo dell’informatica e al superamento di questa stereotipizzazione, ma la strada è ancora lunga. C’è ancora molto da fare anche nel mondo del lavoro. Qui il tema si incrocia con quello dello Smart Working di cui parlavamo prima: non è un caso che negli Atenei più avanti nella sperimentazione hanno notato una maggiore partecipazione delle donne.

Qual è il contributo delle Università all’Open Innovation?

Il contributo dell’ecosistema delle Università all’Open Innovation è ancora marginale in Europa. La ricerca scientifica di alto livello condotta negli atenei del vecchio continente non è ancora ben sfruttata dalle imprese. Ci sono troppe diffidenze, ma soprattutto manca una conoscenza reciproca. Le imprese conoscono poco le realtà universitarie locali, le competenze che esprimono e i tempi con cui lavorano, e finiscono per costruire percorsi tendenti a escluderle.

Un esempio di queste difficoltà mi è capitato qualche giorno fa. Sono stato contattato da un piccolo imprenditore che voleva far fare una lunga formazione a un suo dipendente per acquisire il know-how necessario a realizzare un progetto industriale. Ho spiegato che, seguendo questa strada, avrebbe forse raggiunto il risultato in tempi inconciliabili con la velocità richiesta in questo progetto. In realtà, nel mio Dipartimento c’erano già docenti in grado di seguire sin da subito il tema e offrire soluzioni, perché se ne erano occupati per scopi di ricerca. La necessità aziendale di intestarsi i diritti sul prodotto innovativo finale poteva essere affrontata attraverso una semplice consulenza, finalizzata anche al trasferimento del know-how specifico.  La mia intermediazione ha aiutato l’incontro fra domanda e offerta, ma occorre che ciò avvenga in modo strutturato, e non sia frutto della conoscenza individuale.

Facebook
Twitter
LinkedIn

Iscriviti alla nostra mailing list per restare aggiornato su Hack4EO

Iscriviti alla nostra mailing list per restare aggiornato su Hack4AIV - II Edition